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venerdì 25 giugno 2010

ITALIA FUORI. E CALDEROLI NEL PALLONE

Nell'ansia di semplificare, il ministro per la Semplificazione Calderoli ha trovato, immediatamente dopo l'eliminazione dell'Italia ai Mondiali di calcio, la diagnosi e la terapia dei problemi delle nostre squadre: troppi stranieri sui campi italiani e pochi giocatori allevati nei vivai nazionali. In realtà l'esperienza italiana e di altri paesi lo smentisce. I veri problemi del calcio italiano, seri e strutturali, sono gli stadi inadeguati e l'eccessiva dipendenza dei ricavi dalla televisione, aggravati da una mancanza di leadership a livello di Lega e Federazione


Dopo eliminazioni così amare come quella subita ieri dalla nazionale di calcio italiana, bisognerebbe rimanere calmi e ragionare con la testa fredda. Invece il ministro Calderoli ha già trovato in poche ore diagnosi e terapia: la colpa è dell’eccessivo numero di stranieri che giocano nelle squadre italiane. La possibilità di "importare" extra-comunitari avrebbe ridotto gli incentivi per i nostri grandi club a investire sui giovani, rinunciando a coltivare i vivai. Inoltre gli stranieri rubano il posto ai giovani talenti italiani. Basterà quindi chiudere le frontiere per avere una Nazionale di nuovo vincente.
GIOCATORI NON APPREZZATI ALL’ESTERO
Calderoli è Ministro per la Semplificazione, ma stavolta semplifica troppo. Partiamo dall’ovvio. L’Italia è tuttora campione del mondo in carica (seppur per altre due settimane). Quattro anni fa le frontiere erano aperte e c’erano decine di stranieri che giocavano nelle squadre italiane. Le frontiere erano già aperte quando siamo arrivati terzi a Italia 90 (Maradona era già l’idolo di Napoli) e persino, seppure in modo limitato, quando siamo diventati campioni del mondo nel 1982.Inoltre quello italiano non è certo l’unico campionato pieno di stranieri. Lo sono anche quelli di Spagna, Inghilterra, Germania e Francia. Ma solo la Francia, come noi, è già stata eliminata. Le altre sono tutte qualificate per gli ottavi di finale. La vera anomalia italiana degli ultimi anni è l’incapacità di esportare giocatori. Anni fa Vialli, Zola, Di Matteo, Gattuso, Carboni giocavano in Inghilterra o Spagna, in club come Chelsea o Valencia che lottavano per lo scudetto. Solo quattro anni fa Toni andava al Bayern. Oggi ci sono pochissimi giocatori italiani che giocano fuori dai nostri confini e tutti in squadre di secondo piano. Questo non dipende certo dal fatto che le squadre straniere non possono pagare stipendi competitivi: il Real strapaga Cristiano Ronaldo e Kakà e il Barcellona Ibra. E gli allenatori italiani hanno mercato all’estero: Ancelotti al Chelsea, Capello allenatore dell’Inghilterra, Mancini al City, Spalletti allo Zenit. Vuol dire che pochissimi giocatori italiani sono apprezzati all’estero. Questo è il vero problema. Chiudere le frontiere non aiuta molto se il problema è che i beni prodotti internamente non sono competitivi sui mercati internazionali. Senza contare che chiudere le frontiere, invece, servirebbe solo a far salire il monte salari e spingere ancor più verso il rosso i bilanci delle società italiane e che, grazie ai giocatori extra-comunitari, come brasiliani e argentini, i nostri club sono riusciti spesso a ben figurare in competizioni a livello internazionale, acquisendo esperienza in incontri di alto livello.
CHI FA LA DIFFERENZA IN CAMPO
Esiste certamente un problema vivai, non solo a livello italiano. La possibilità di strappare talenti in giovane età rende meno conveniente investire internamente rispetto a usare il mercato. Nel trade-off tra “make or buy” oggi nel calcio conviene decisamente il buy. Forse le politiche di compensazione per la formazione dei giovani talenti dovrebbero essere riviste. Ma non dimentichiamo neanche che le squadre sudamericane sono esposte allo stesso problema e non sembrano risentirne in alcun modo, almeno a vedere la loro performance ai Mondiali. E neanche, a livello di club, il Barcellona, squadra che da sempre investe molto nel vivaio, sembra averne troppo sofferto.Infine una considerazione più calcistica. Nel calcio basta poco per fare una grande differenza nei risultati sportivi. Se andiamo a vedere la performance della Francia negli ultimi quattro mondiali vediamo che ha fatto sempre benissimo quando aveva Zidane in campo (Francia 1998 e Germania 2006) e malissimo quando non c’era (nel 2002 era infortunato e giocò solo la terza e ultima partita, peraltro in condizioni menomate). L’Inghilterra sembra un’altra squadra rispetto a pochi mesi fa perché Rooney non si è ancora ripreso dall’infortunio alla caviglia. Insomma, il calcio italiano ha problemi seri e strutturali: stadi inadeguati e eccessiva dipendenza dei ricavi dalla televisione, aggravati da una mancanza di leadership a livello di Lega e Federazione. Ma sull’eliminazione di ieri forse hanno pesato di più gli infortuni di Buffon e Pirlo e la testardaggine di Lippi.

Tito Boeri

Fausto Panunzi

venerdì 23 gennaio 2009

Perché Mansour non ha comprato una squadra italiana

Scarsi ricavi, stadi inospitali, normative contro la violenza ancora largamente inapplicate, abbondanza di leggi ad hoc e sanatorie per chi viola le regole: sono solo alcuni dei motivi che scoraggiano gli investitori esteri ad acquistare le società di calcio nostrane

di Tito Boeri e Fausto Panunzi

Ha offerto una cifra astronomica per il milanista Kakà. Ma allo sceicco costerebbe di meno acquistare un'intera squadra italiana. Non lo fa perché l'industria del calcio riproduce gli stessi fattori che allontano gli investitori esteri dalle aziende italiane. Ci sono le tifoserie organizzate che esigono una sorta di pizzo. Le normative sono complesse, inapplicate o comunque arbitrarie, esponendo gli stranieri a rischi difficilmente ponderabili. Abbondano leggi ad hoc e sanatorie per chi viola le regole. E poi c'è l'endemico conflitto di interessi del nostro paese.
Kakà resta al Milan! I tifosi milanisti (tra cui uno di noi) sono felicissimi perché si aspettavano che Kakà e il Milan non resistessero di fronte ai 110 milioni di euro che lo sceicco Mansour Bin Zayed (nella foto) aveva offerto al Milan e i 15 milioni l’anno promessi all’asso brasiliano. Lo sceicco si è consolato, si fa per dire, comprando Bellamy dal West Ham e si consolerà con altre offerte tra gennaio e l’estate. Ma c’è una domanda che nessuno sembra essersi posto: perché lo sceicco Mansour, invece di comprare un solo giocatore in Italia, non acquista un’intera squadra italiana? Gli costerebbe molto di meno e sarebbe una squadra in gran parte già fatta, cui apportare solo alcuni ritocchi per essere ben più competitiva del Manchester City. Per fare un esempio, la capitalizzazione di borsa della Juventus è di 170 milioni, quella della Roma di 85 milioni mentre la Lazio capitalizza solo 27 milioni. Le altre squadre non sono quotate in Borsa, ma il loro valore di mercato (in Italia coincide quasi solo con il parco giocatori) è probabilmente ancora più basso. Lo sceicco potrebbe fare shopping alla grande in Italia, di squadre prima ancora di giocatori, se solo lo volesse. Per la gioia di molti tifosi (uno di noi gli suggerisce caldamente l’acquisto del grande Toro).
Perché allora non lo fa? Ci sono due ragioni per le quali si acquista una società di calcio.

I RICAVI DELLE SQUADRE DI CALCIO IN ITALIA: UN TERNO AL LOTTO
La prima è quello più ovvia: per fare soldi. E’ vero, come ci ricordava un recente articolo del Corriere della Sera che alcune società inglesi non se la passano bene. La più prestigiosa, la squadra campione del mondo in carica, il Manchester United ha un indebitamento di 770 milioni di euro. Inoltre fronteggia la prospettiva di perdere il suo sponsor, la compagnia assicurativa AIG travolta dalla recente crisi finanziaria. Ancor peggio è messo il Chelsea, con un debito di 935 milioni di euro e un proprietario, Abramovich, che sembra essersi stancato di investire nel calcio. Anche Liverpool, Newcastle e il West Ham allenato da Zola sono in grave crisi. Ma se le squadre inglesi fanno scarsi guadagni, quelle italiane sono messe anche peggio. Per tante ragioni. L’ad del Milan Adriano Galliani ricorda spesso il regime fiscale che in Italia rende il “costo del lavoro” (gli ingaggi delle superstar) più elevato che nel resto d’Europa. Ma questo non è l’unico fattore di svantaggio competitivo. Di fronte a ingaggi fissati sul mercato internazionale, il calcio italiano ha debolezze nazionali sul lato dei ricavi. Gran parte delle entrate dei club viene dai diritti televisivi. In Italia le squadre di calcio ormai vivono solo di questi. Le loro fortune dipendono da trattative complesse, dall’esito molto incerto. Questo espone la proprietà a rischi più forti che altrove. In Inghilterra c’è molta più diversificazione nelle entrate: biglietti dello stadio, merchandising, sponsor e gestione degli stadi garantiscono fino al 70 per cento delle entrate. In Italia, stadi vecchi e poco ospitali scoraggiano la presenza di spettatori, specie durante i mesi invernali. Gli stadi non sono di proprietà dei club (solo la Juve si sta costruendo il suo) e ciò impedisce di ottenere ricavi derivanti dalla visita dell’impianto: al Bernabeu, per esempio, si fa la coda per visitarlo ogni giorno dell’anno. Il merchandising ha un valore ridotto dalla massiccia presenza di gadget “taroccati”, come accade del resto per la maggiore parte dei capi di abbigliamento di marca in Italia. In più, le squadre di calcio italiane sono spesso ostaggio della cosiddetta tifoseria organizzata, talvolta vere e proprie associazioni a delinquere che minacciano con le loro violenze di causare danni irreparabili ai patrimoni delle società. La timidezza con cui i presidenti delle squadre ricattate reagiscono alle violenze degli ultras, il fatto che ogni ministro degli Interni di turno faccia la voce grossa, ma le normative contro la violenza negli stadi siano ancora largamente inapplicate, garantendo un regime di impunità a ben identificabili bande di criminali, sono la dimostrazione evidente di questa malattia endemica del calcio italiano. Anche altrove ci sono i violenti, gli hooligans. Ma da noi la violenza è meno individuale; è organizzata per il conseguimento di fini economici, come la vendita dei biglietti omaggio e di oggetti di merchandising.
Per anni, le squadre si sono barcamenate scambiandosi calciatori e iscrivendoli a bilancio con valutazioni nettamente superiori a quelle del mercato per realizzare plusvalenze, portando in nero bilanci effettivamente in rosso e lasciando poi in eredità ammortamenti (dunque costi di esercizio) elevati. Decreti come il salvacalcio, varato sotto il precedente governo di un presidente di squadra di calcio, offrivano poi alle società la possibilità di svalutare il patrimonio calciatori, riducendo in questo modo gli ammortamenti, senza essere costrette a ricapitalizzare o fallire.
Insomma, in tutta la sua specificità, l’industria del calcio riproduce gli stessi fattori che allontano gli investitori esteri dalle aziende italiane. Le tifoserie organizzate non saranno come la mafia, la camorra o la ndrangheta, ma anche loro, in qualche modo, esigono un pizzo. I diritti di proprietà non sono difesi in modo efficace. Si fanno leggi ad hoc e abbondano le sanatorie per chi viola le regole.

I RITORNI DI IMMAGINE
Quindi in Italia non si compra una squadra di calcio per ottenerne direttamente profitti. Nella maggior parte dei casi, le squadre di calcio sono comprate per una seconda ragione, cioè per beneficiare di ritorni di immagine, connessioni e influenza politica. La Juventus è appartenuta da sempre al gruppo controllato dalla famiglia Agnelli. Il Milan appartiene a un impero mediatico come quello controllato dalla famiglia Berlusconi. Il Torino è controllato da un gruppo editoriale relativamente piccolo, quello di Cairo. Il Napoli è di proprietà di un gruppo che opera nel settore dei media, quello del presidente De Laurentis. Poi ci sono i petrolieri, come Moratti, Sensi, Garrone, la cui attività è molto influenzata da decisioni politiche come le norme sulla protezione ambientale, le accise sulla benzina e le varie Robin e Gheddafi tax. E non dimentichiamo che anche i due gruppi al centro degli scandali finanziari di qualche anno fa, Parmalat e Cirio, avevano due squadre di calcio. A prima vista si potrebbe pensare che questi benefici privati siano di scarsa rilevanza. Ma quanto ha influito il fatto che Tanzi e Cragnotti fossero proprietari di Parma e Lazio nelle decisioni di finanziamento delle banche verso questi gruppi? E che impatto ha il fatto che la famiglia Sensi possieda la Roma nella gestione del rientro del debito verso Unicredit?
Un’altra semplice prova del fatto che i benefici privati non sono trascurabili sta nel fatto che il presidente Berlusconi non ha certo pensato di dare ascolto ai tifosi che gli suggerivano di vendere il Milan e non Kakà. Probabilmente Berlusconi si aspetta un danno di immagine più forte se dovesse vendere la sua squadra a uno sceicco, soprattutto dopo aver difeso a spada tratta l’italianità di Alitalia. E ieri sera ha trovato il tempo per collegarsi personalmente con il Processo di Biscardi, Sky Sport 24 e Sport Mediaset Premium, e forse con altre emittenti, per dare al popolo milanista la buona novella relativa alla permanenza di Kakà. L’annuncio della possibile cessione era stato invece delegato al fido Galliani che si è beccato le contestazioni dello stadio.
Ma questi benefici privati sono rilevanti soprattutto per operatori economici che già operano in Italia, che hanno rapporti con la politica italiana o con i gruppi bancari italiani. Per lo sceicco Mansour sono del tutto irrilevanti. Ecco perché preferisce investire i suoi soldi nella Premier League. Come gli americani che hanno già investito nel Manchester United e nel Liverpool. Invece a Roma stanno ancora ridendo dell’americano Joe Tacopina che di soldi ne aveva pochi, ma di confusione ne ha fatta tanta.
Tratto da La Voce.info
http://www.wikio.it

il pallone in confusione

Registrazione n° 61 del 28 settembre 2009 presso il Tribunale di Napoli
Sede: corso Meridionale 11, 80143 Napoli
Editore e direttore responsabile: Marco Liguori

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